Sui limiti di ogni tentativo di soluzione del problema del divenire

Il divenire è qualcosa di troppo sfumato e indeterminato per poter essere colto dalle rigide categorie della logica classica. Mentre queste presuppongono la dicotomia “essere”-“non essere” attraverso l’utilizzo affermativo o negativo della copula (“è”, “non è”), il divenire è la sintesi necessaria di entrambi. Tale sintesi non vanifica la logica formale (che funziona solo su entità “ferme” e “identiche a sé stesse” come i concetti), ma la supera. Trascende il suo ambito di applicabilità.
Per fare un esempio concreto: ha senso dire che un seme che si è trasformato in un albero è scomparso nel nulla? No, perché altro è sprofondare nel nulla e altro è trasformarsi in qualcos’altro. Ha senso dire che l’albero è un non-seme? Si e no, perché se è vero che non ha le fattezze del seme, è anche vero che LO E’ STATO e che si è sviluppato a partire da questo (a differenza di altri non-semi che col seme non c’entrano nulla, come ad es. una macchina, una montagna, una roccia, ecc.). Prova ne sia che mantiene lo stesso DNA del seme, quel patrimonio di informazioni genetiche che ha orientato la moltiplicazione e la differenziazione delle cellule del seme fino ad arrivare gradualmente all’albero. Esempio analogo potrebbe valere per quanto riguarda lo sviluppo umano: l’adulto è un non-bambino, ma lo è stato nel passato ed è sempre e comunque la stessa persona con lo stesso carattere (pur con le differenze dovute all’accumularsi delle esperienze e delle informazioni), tant’è che chi lo ha conosciuto da bambino può riconoscerlo anche da adulto come lo STESSO individuo. Trasformarsi in qualcos’altro NON E’ scomparire nel nulla, e viceversa. La trasformazione delle cose ci mostra degli enti (o dei non-nulla) che diventano altri enti (o non-nulla) in base a determinati fattori causali (anch’essi dei non-nulla), non degli enti che finiscono nel nulla!
Il divenire altro da sé da parte degli enti sensibili è contraddittorio se valutato secondo le rigide categorie della logica classica, che come ho detto funziona solo su enti immobili (come i concetti che NOI abbiamo delle cose sensibili), non sulle cose stesse soggette a trasformazione. Noi, per tornare all’esempio precedente, distinguiamo e contrapponiamo logicamente il seme all’albero come due enti reciprocamente “altri da sé” perché separiamo nel nostro concetto quello che nella realtà è un processo unitario che porta dal primo al secondo. In altre parole, scomponiamo analiticamente ogni momento del divenire reale per poi affermare che i concetti che abbiamo ottenuto rimandino ad enti differenti e disuniti tra loro (come se fossero vasi non comunicanti). Il problema è che la logica classica, proprio perché si applica a cose “atemporali” come i concetti mentali, non può comprendere la dimensione del tempo che è proprio ciò che permette di cogliere intuitivamente perché l’albero è stato PRIMA un seme, o un adulto un bambino, ecc. Ragionando secondo questa logica astratta e “atemporale” finiamo col creare facilmente dei paradossi come quello di slegare eventi che sono in realtà tra loro collegati (il seme non è l’albero, ma gli EVENTI che portano dal primo al secondo sono tra loro temporalmente COLLEGATI). Del resto lo stesso Aristotele nel IV libro della Metafisica affermava che di una cosa non si può predicare che è e che non è sotto il medesimo aspetto e NEL MEDESIMO TEMPO…
Emanuele Severino, richiamandosi all’ontologia eleatica, definisce il divenire come contraddittorio proprio perché pretende di applicare la logica formale anche a ciò che, per i motivi detti, sfugge alle sue rigide categorizzazioni atemporalizzate (del resto lui rifiuta come “contraddittoria” l’esistenza stessa del tempo). Tuttavia, anche assumendo per un attimo la validità delle premesse del suo ragionamento, la soluzione da lui escogitata per “neutralizzare” la contraddittorietà del divenire non è convincente: anche l’”apparire” e lo “scomparire” degli enti (in luogo del loro “iniziare” e “finire”) è una forma – per dir così – “addomesticata” del divenire, in quanto presuppone un tempo generale in cui tali manifestazioni possano avvenire. Inoltre, l’atto stesso di apparire e scomparire non è un nulla, e come tale non può venire dal nulla. La domanda viene quindi semplicemente spostata più in là: perché le cose appaiono e scompaiono? Se noi e le cose circostanti siamo immutabili, che senso ha parlare di “apparire” e scomparire”? Perché percepiamo la nostra coscienza come temporalmente finita, se siamo esistiti da sempre in quanto eterni? Come può un soggetto immutabile vedere altri immutabili in movimento? Ha senso parlare di “soggetto” immutabile?
Anche Gustavo Bontadini (il maestro di Severino) interpretava il divenire come contraddittorio (in quanto implicherebbe il non-essere di ciò che è, e viceversa), ma reale al tempo stesso, in quanto oggetto di esperienza. E dato che, secondo il suo ragionamento, nulla di ciò che è reale e percepibile può essere davvero contraddittorio, deve trattarsi di una contraddizione APPARENTE. Come risolvere allora tale problema? Come spiegare tale apparenza di contraddizione? E soprattutto, come TOGLIERE tale contraddizione, al fine di conciliare l’esperienza sensibile (che attesta il divenire ad ogni istante) con le esigenze del Logos? Ecco che il nostro chiama in causa Dio, l’unico Essere che a suo avviso può togliere tale contraddizione. In che modo? Attraverso un atto di creazione che – negando il negativo del divenire – supplirebbe a tale negativo, eliminando la contraddizione in questione (essere = non-essere). Infatti, due negazioni fanno un positivo. Il problema di questo argomento – definito “teorema della creazione” – è di togliere la contraddizione apparente del divenire solamente a costo di spostarla in Dio: difatti l’atto creatore – per essere tale – deve essere “ex-nihilo”, e quindi presupporre in sé stesso quel negativo che intende negare nel divenire. Se togliamo il negativo, ovvero l’ “ex-nihilo” alla base della creazione, eliminiamo la creazione stessa. E qual è il significato di “creare ex-nihilo” se non quello di “estrarre l’essere dal non-essere”, ovvero “far essere il non-essere”? Ecco però che la contraddizione “essere = non-essere” denunciata nel divenire viene – attraverso l’atto creatore – semplicemente spostata in Dio…
Inoltre, se esistesse il Dio immutabile ed infinito di Bontadini (e di tutta la tradizione metafisica occidentale), il divenire stesso sarebbe semplicemente impossibile. Infatti, TUTTO sarebbe Dio (essendo questo Infinito in Atto, o Atto Puro Infinito), e questo TUTTO sarebbe immobile (essendo Dio assolutamente Indivenibile, in quanto Atto Puro). In altre parole, un ipotetico Atto Puro originario, infinito e atemporale, comprenderebbe in sé stesso TUTTO l’esistente, sarebbe e coinciderebbe con TUTTO l’esistente. Dunque non potrebbe creare nulla di nuovo rispetto a sé stesso, se non a costo di auto-limitarsi e negarsi.
Il difficilissimo problema della coesistenza tra un Dio infinito e immutabile e un Mondo imperfetto e diveniente non può essere risolto neppure ricorrendo (come ha fatto Tommaso e come fanno oggi i neotomisti) al concetto di “partecipazione”, per il quale le cose materiali realizzano in misura limitata e imperfetta ciò che in Dio è dato in modo illimitato e perfetto. Tale concetto è stato utilizzato anche da Platone per spiegare il rapporto tra le idee e le cose e tra le idee e l’idea suprema del Bene. Va rilevato innanzitutto  che un conto è creare (ovvero “far essere ciò che non è”), un altro è partecipare: nel primo caso viene posto in essere qualcosa che prima non era, viene aggiunto un nuovo essere necessariamente eterogeneo rispetto a quello precedente (se fosse identico all’essere creatore, non avrebbe avuto bisogno di essere creato!). Nel secondo caso, invece, l’essere partecipante comunica il proprio essere ed è in qualche misura simile all’essere partecipato (che lo riceve da lui).  Il rapporto sussistente tra il “partecipante” e il “partecipato” è grosso modo lo stesso che c’è tra l’originale e la copia. Ricevere l’essere per partecipazione da parte di qualcosa che è già, è dunque ben diverso dal riceverlo magicamente ex-nihilo attraverso un atto di creazione; tant’è vero che Platone, quando sosteneva che le cose partecipano delle idee, non intendeva certo attribuire alle idee alcun potere creazionistico, considerato inammissibile prima dell’avvento del cristianesimo. In secondo luogo, come potrebbe un Essere perfetto degenerare (nonostante la sua indivenibilità) nell’imperfezione, partecipandosi ad enti imperfetti? Come si spiega il passaggio – anche questo una forma di divenire! – dalla perfezione e immutabilità assoluta dell’Atto Puro all’imperfezione e al divenire del mondo? Se le cose partecipano dell’essere di Dio, perché non sono immutabili come lui (così come lo sono le idee platoniche che partecipano dell’idea suprema del Bene)? Se il divenire implica il non-essere degli enti sensibili, e se questi sono in Dio (in quanto partecipati da lui), dobbiamo concludere che il non-essere è originario quanto Dio? Che ne è allora della sua perfezione, che dovrebbe escludere radicalmente il non-essere? Inoltre, se la materia e l’energia sono completamente eterogenee rispetto all’Essere divino, come possono essere sue partecipazioni? Come può, in altri termini, un puro Spirito – scevro da ogni materialità – produrre per partecipazione qualcosa di materiale? La materia non è forse una novità, un di più rispetto alla sostanza im-materiale? Il concetto di partecipazione non spiega come un mondo fisico (intrinsecamente dinamico) possa essere stato materializzato da un Essere spirituale e immutabile, e non risolve l’aporia di un mondo posto in essere da un Dio che – per essere coerentemente tale – dovrebbe impossibilitarlo. Solleva solo ulteriori perplessità e non dà nessuna risposta.
Dunque neppure Dio può spiegare il divenire, perché se fosse (così come lo intende la tradizione metafisica occidentale) lo renderebbe semplicemente impossibile: e annullare le premesse del problema da cui si è partiti non significa certo risolverlo. Qualcosa di analogo accade anche con l’argomento “ex contingentia mundi”, la terza via di Tommaso d’Aquino: se tale argomento provasse ciò che intende provare (l’Essere Necessario), verrebbe vanificata quella stessa contingenza che costituisce la premessa dell’argomento. L’Essere Necessario, infatti, ponendosi come Causa Necessaria potrebbe causare solamente effetti a loro volta necessari, ovvero non contingenti!
Non se ne esce: una volta che il divenire venga definito “contraddittorio” in base a quello che si potrebbe definire come un “abuso” dell’utilizzo della nostra logica formale, sia la sua negazione, sia la pretesa di risolverlo in Dio, sposta il problema o ne pone di ulteriori. E il Dio di Bontadini, lungi dal risolvere il problema dell’apparente contraddittorietà del divenire, la sposta più in là (l’atto creatore, poiché fa “essere” il “non essere”, non è meno contraddittorio del divenire che intende spiegare).
Forse è il caso di accettare il divenire come un fatto bruto da cui partire, senza ulteriore spiegazione. Le nostre stesse spiegazioni ricorrono a fattori o elementi causali, i quali a loro volta presuppongono il tempo (che è la dimensione del divenire). Una causa del tempo (e del divenire) è impensabile, perché la causa è sempre anteriore al suo effetto (non si possono concepire cause ed effetti simultanei, perché in tal caso oggettivamente indistinguibili) e quindi presuppone la dimensione temporale. Senza il tempo non ci sarebbe alcun movimento, e senza di questo non sarebbe possibile nessun rapporto causale. Anche la “scelta” di creare lo spazio-tempo (e con esso il divenire) da parte di un ipotetico Dio implicherebbe un tempuscolo, per quanto piccolo, di deliberazione e quindi un “prima e un dopo”.
Per dirla con le parole di Jean Meslier tratte dal Testamento:
“Assurda è l’idea di creazione del tempo, che deve essa stessa farsi nel tempo”.
Oppure con le parole di Werner Heisenberg tratte da Fisica e filosofia:
“La parola creare, così come è comunemente intesa, significa che qualche cosa è venuto ad essere che prima non era, e in questo senso essa presuppone il concetto del tempo. E’ perciò impossibile definire in termini razionali ciò che potrebbe essere il senso della frase – il tempo è stato creato”.
Oppure ancora, con le parole di Giuseppe Rensi tratte dall’Apologia dell’ateismo:
“O Dio è fuori del tempo, ed è cosa immobile e morta, che non fa e non vive; oppure è nel tempo e allora abbiamo un Dio che cangia. O morto o cangiante, in entrambi i casi non-Dio”.
Inoltre, tale scelta (come qualsiasi altra che abbia un senso compiuto) deve sottendere un motivo di base, una ragione fondamentale che la giustifichi. Quale, se l’Essere in questione è assolutamente perfetto e non mancante di nulla? La risposta della teologia cristiana (Dio ha creato per “dare amore” e “ricevere gratitudine” dalle sue creature), oltre a scontrarsi con il problema del male, non è soddisfacente sul piano teoretico perché attribuisce a Dio delle estrinsecazioni emotive che non possono essere compatibili con la sua assoluta e impassibile perfezione. Come se non bastasse, per esercitare la sua provvidenza sugli uomini (rivelarsi, incarnarsi, redimere i loro peccati, ascoltare le loro preghiere, compiere miracoli, ecc.) Dio deve essere in qualche modo “toccato” dalle vicende umane, ovvero deve essere – in altre parole – passibile. Ma se è passibile, non può essere perfetto e non può più svolgere la funzione per la quale è stato pensato teoreticamente: sostenere, come Esse subsistens (Essere auto-sussistente), l’esse contingente degli enti passibili.
Da qualunque finestra lo si voglia fare uscire, il divenire (e le problematiche ad esso correlate) trova sempre una porta dalla quale rientrare…

8 risposte a “Sui limiti di ogni tentativo di soluzione del problema del divenire

  1. bell’articolo. tuttavia, il problema semplicemente non ha senso. chiunque è libero di costruire una logica ipotetica non temporale. poi la usa, e si diverte fin che vuole. tuttavia, tale struttura logica non descrive l’esperienza reale. logici e matematici fanno benissimo a fare il loro mestiere, e costruire forme astratte di ogni genere. ogni scienziato naturale, invece, sa che tali strumenti possono essere correlati al reale esperenziale oppure no. fintantochè no, sono solo giocattoli. naturalmente, ha senso e dignità anche il gioco. ma non necessariamente descrive il reale esperenziale. la contraddizione, dunque, non sta nella dinamicità dei fenomeni, bensì nella relazione tra la pretesa di severino di una filosofia atemporale e la fenomenologia esperenziale. naturalmente, il discorso non si esaurisce qui: ci sono altri sviluppi possibili.

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  2. uno sviluppo possibile è il seguente. immagina ogni istante temporale come una immagine spaziale, e disponile in successione, una dietro l’altra. ora immagina un essere capace di osservare la successione spaziotemporale “dal di fuori”, cioè di osservare tutto insieme il “film” dell’esistenza, come successione di fotogrammi tridimensionali. tale essere sarebbe, dal NOSTRO punto di vista, atemporale. tuttavia, non lo sarebbe dal suo punto di vista. senza mutamento non c’è esistenza, percepibile, perchè non c’è interazione tra conoscente e conosciuto. può definirsi il caso di un ente atemporale immutabile, autoconoscente staticamente una volta per tutte. una sorta di divinità, diciamo così, che include in sè ogni spazio e d ogni tempo, quali già conosciuti, e, staticamente, non fa assolutamente nulla, perchè non gli è rimasto niente da fare. se è questo ciò che cercava severino, gli auguro di averlo raggiunto, ed essersi inglobato in ciò. il che, da capo, non ha a che fare con la nostra realtà esperenziale attuale. c’è differenza tra potenza ed atto, come noto. ovvero anche tra potenzialità ed attualità. una filosofia atemporale è potenzialmente accettabile e fruibile. ma non è attuale, è astratta dalla nostra effettiva esistenza interattiva in atto.
    almeno: per ora.

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  3. l’astrofisico fred hoyle produsse anche interessanti modelli teorici (puramente potenziali) di istanti temporali non soggetti a relazione d’ordine, ovvero disponibili secondo ordine qualsivoglia, salvando tuttavia egualmente la relazione causa-effetto al loro interno. è anche possibile ampliare quasta sua costruzione immaginando di correlarla alla meccanica quantistica. ma gli effetti nella nostra esistenza attuale (non potenziale) rimarrebbero comunque gli stessi. ignoro se qualcuno abbia sviluppato il modello fino ad individuare differenze discriminati, che permettano di stabilire se le cose non stiano effettivamente come prospettato, quale esperimento mentale, da hoyle, oppure no. io non sono riuscito a trovare differenze osservabili, ma può darsi che ci sia riuscito qualcun altro. il mondo della folosofia naturale è ampio, e i filosofi naturali sono molti.

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  4. è anche possibile ipotizzare che il passato non sia mai esistito, e che esista solo il presente, con tutti i falsi ricordi di una ipotetico passato mai esistito. lo ha fatto bertrand russel, e, presumo, non solo lui.
    il limite della faccenda èdello stesso genere visto prima, a proposito di hoyle: dal punto di vista della nostra realtà esperenziale non cambia niente.
    in compenso, la relatività di einstein mostra come descrivere un quadrispazio nel quale le linee temporali di ogno oggetto sono proprie, e distinte dalle altre.
    una descrizione pregevole, considerato che ci permette di comprendere fenomeni prima inesplicabili e contradditori.

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  5. Pregevole articolo sia per chiarezza che per sostanzioso contenuto. In effetti nel tuo articolo mi rispecchio con le mie idee. Hai colto perfettamente la fallacia del ragionamento teologico-metafisico che afferma la nullità degli enti a causa della lo loro trasformazione, se un ente X si trasforma in y non vuol certo dire che y viene dal nulla e torna nel nulla, (Severino docet), ma si ha che qualcosa diventa qualcos’altro, insomma c’è sempre qualcosa mai il nulla, come dici tu, è la logica formale, per altri aspetti potente mezzo di ragionamento, che in questo caso, però, induce a pensare gli enti in modo cristallizzato, mentre la realtà è fluida, il nulla, come insegna Bergson, è un concetto autodistruttivo, esso non può essere il soggetto di nessun enunciato altrimenti negherebbe se stesso e non sarebbe più nulla. Alla luce di tutto ciò è del tutto inutile ipotizzare un essere necessario in cui, quindi, esistenza ed essenza coinciderebbero, l’unica necessità è l’esistenza della materia- energia, dato che il nulla è teoricamente e praticamente impossibile.

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  6. Ti ringrazio Daniele per l’apprezzamento. L’argomento di Bontadini, per quanto originale e ben congegnato, non riesce a spiegare veramente il divenire se non attribuendo all’atto creatore di Dio ogni elemento di “novità” (a livello di movimento locale, trasformazione di un a cosa in un’altra, proprietà emergenti, e via dicendo). Il punto tuttavia è che per quanto il divenire – in quanto tale – possa apparire contraddittorio secondo i criteri della logica classica, altrettanto contraddittorio dev’essere un atto creatore che fa uscire gli enti (o gli elementi di “novità” del divenire) dal nulla. Se poi questo “atto”, in quanto atemporale, viene identificato da Bontadini con l’essenza stessa di Dio (nel senso che Dio sarebbe tutt’uno con il suo atto creatore), ed essendo Dio “l’essere necessario e indivenibile”, ne conseguirà che anche tale atto sarà “necessario” (non-contingente), e quindi non-libero (la libertà di scelta è infatti una forma di contingenza). Dunque avremo un Deus necessitato, alla maniera di Spinoza. Se invece gli elementi di novità del divenire fossero semplici “manifestazioni” di eterni che entrano ed escono dalla nostra rappresentazione (come sostenuto da Severino), avremo un panteismo pluralistico in salsa eleatica: “panteismo”, perché tutta la realtà viene “eternizzata” in modo da assumere uno dei caratteri fondamentali di Dio; “pluralistico”, perché gli eterni in questione sono plurali (TUTTI gli enti che entrano ed escono dal nostro orizzonte fenomenologico); “in salsa eleatica”, perché in questa concezione della realtà il divenire – come trasformazione delle cose – viene soppresso. Il problema della concezione severiniana – per quanto mi è dato di capire – è quello di rendere gli eventi irrelati tra loro, ovvero SCONNESSI sul piano causale; infatti, SE è vero che tutto è eterno (quindi esistente DA SEMPRE, quindi INCAUSATO), di nessun evento Y si potrà dire che viene (o con-segue) da un precedente evento X. La negazione ASSOLUTA del principio di causalità solleva però molte perplessità, ed è difficile da conciliare con la visione scientifica che noi abbiamo dell’Universo. Non ci può essere dipendenza di un “eterno” da un altro “eterno” (e quindi causazione), perché ogni eterno ha in sé stesso (in quanto eterno) la ratio della propria esistenza. Tuttavia sappiamo per certo tramite l’esperienza (scientifica e quotidiana) che gli eventi sono tra loro collegati e alcuni dipendono da altri. Il problema dell’eleatismo è proprio quello di non spiegare la relazione costante di determinati fenomeni: se A, B, C, …. sono TUTTI QUANTI eterni, è indifferente che A si relazioni con B anziché con C o con Z.

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  7. Salve Mattia, complimenti per il suo ottimo articolo, anche se non lo condivido; ciò non toglie che sia un ottimo articolo. A tal proposito, ho steso un commento critico nel mio blog:”Emanuele Severino. Risposte ai suoi critici”.

    http://www.blogger.com/blogger.g?blogID=8152463022969536822#editor/target=post;postID=6528984515266937369

    Oppure qui:
    http://emanueleseverinorisposteaisuoicritici.blogspot.it/

    Naturalmente, se e quando deciderà di leggerlo, saranno benvenute repliche e critiche…

    Grazie, cordiali saluti

    Roberto Fiaschi

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  8. In tutti i commenti che ho letto c’è un problema di fondo.
    Non ci può essere ne un fuori ne un prima del big bang. Il tempo è dato dalla concentrazione di materia e spazio e non è quindi una costante, varia a seconda di dove ci si trova nell’universo e quindi a causa della concentrazione di materia ed energia (in un buco nero il tempo non scorre ad esempio). Quindi non ha senso dire “prima” del big bang c’era già dio perchè non c’era un tempo in cui quel “prima ” potesse esistere.
    Idem con patate per il fuori poichè l’universo è perfettamente bilanciato in spazio ed energia. Ne consegue che è limitato. Non c’è pertanto un “fuori” dell’universo e non c’era un posto prima del big bang, poichè lo spazio si è creato con esso, in cui quel dio potesse stare o dove potesse creare l’universo.
    Ne consegue che nessun dio ha creato l’universo perchè non è possibile creare l’universo.

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